Vitruvius, I Dieci Libri dell' Architettvra di M. Vitrvvio, 1556

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214195OTTAVO.
Nella diſerta piaggia oue non uede
Naſcer herbette il Sol’, ò ſorger fonte,
Fu fatt’un popol d’ogni cibo herede.
Col guſto lor’, & con le uoglie pronte
Vn’eſca ſol’haueua ogni ſapore,
Odi cos’incredibili, ma conte
Er’un paeſe ou’il diuin fauore
Conduczua la gent’à Dio diletta,
Sott’il ueßillo d’un gran conduttore
In quell’in uece d’acqua pur’, & netta
Candido latte, &
dolce mel correa
Ogni coſa in ſuo grado era perfetta
Ma giugner prima ou’andar ſi douea
Senza fatica, &
camin aſpro, & pieno
D’ogni diſagio, &
mal non ſi potea.
Il popol ſi ſentiua uenir meno
Et della uit’, &
delle ſue ſperanze,
Et àl mal dire non haueua freno
Il capitano alle celeſte ſtanze
Gl’occhi, &
le palme humilmente uolgendo
Pregò ſecondo le ſue antiche uſanze
Padre (dicea) del cel ſe ben comprendo
Hauer condotta la tua gente in loco,
Oue la morte ſenza te n’attendo
Tu, che partiſti gl’elementi, e al foco
Seggio ſublime, &
piu capace deſti
El troppo al mezzo reduceſti, el poco
Pur’io confido ne i mei uoti honeſti
Che ſon fondati nelle tue promeſſe
Che grat’ il nostro male non haureſti
Meco ſon queſte genti, & io con eſſe
Eſſe alla mia, &
io ſto alla tua uoce,
Voce, che ſta nelle tue uoglie steſſe
Ecco l’aſpro ſentier quanto li noce,
Quant’ è l’error fallace delle strade,
Quant’è la fame indomita, &
atroce
Tu ſei la uia2, tu ſei la ueritade
Tu ſei la uita, però dolce padre
Moſtraci il uer camino per pietade
Porg’il cibo bramato alle tue ſquadre,
Et fa, che ſi comprenda, che ne ſei
Preſente con quest’opere leggiadre.
Vdi la uoce il padre de gli Dei
Del capitan fedele, &
ſuo gran duolo,
Mostrò quant’ ama i buon’, &
odia i rei
Però chiamand’il ſuo beato stuolo
Quello, ch’il ſuo uoler’ in terra ſpiega,
E innant’ogn’hor li ſta con dolce uolo.
Diſſeli poi ch’al giuſto non ſi niega
Giuſta dimanda, hor git’oue ſi ſerua
L’ambroſia noſtra, el nettare ſi lega
Nei uas’eterni, in eterna conſerua,
Di questa ſopra la diſerta piaggia
Ou’il popolo mio la fame ſnerua,
Tanta dal Cel per ogni uerſo caggia,
Ch’ogn’un’il ſeno ſi riempi, &
goda
Ne ui ſia tribu, ch’in copia non haggia,
Ecc’una ſchiera di quei ſpirti ſnoda
Le celeſti uiuande giu dal cielo,
Piouen quell’eſca, per ch’ognun la roda.
L’afflitta turba, che dal chiaro uelo
Del bel ſeren’ intorno, uede &
mira
Scender’ il dolc’, &
trapparente gelo
Deſioſa la coglie, & pon giu l’ira,
Che la fame notriſce, &
ſene ſatia
Con marauiglia, &
quanto puo reſpira.
L’alto stupor di coſi rara gratia
Conduc’ à dir’ ogn’un, che cos’è questa?
1110 Qual bocca non fia stanca pria, che ſatia?
La uoglia ogni ſapor’ in quella deſta
Però ſene content’ogni palato,
Ogni guſto s’acquet’, &
ſene resta
Benedetto ſial Ciel, che ciò n’ha dato,
Et ſe ben quella uolta fu corteſe,
Qualche parte però n’anchor laſciato.
Ma ben benign’è l’aria in quel paeſe,
Che ciò ne manda per ſanar gl’mfermi
Di uari mali lor’, &
uarie offeſe
2220
Ma qui conuien co’l mio cantar ſi fcrmi.
Com’il calor delle ſoperne ſpere
Leu’il uapor dalla terrena ſcorza,
Detto s’è prima con ſentenze uere
La bianca neue il uerno s’inſorza,
Come ſuol far la ſtate la tempeſta,
In cui uirtu maggior ſi moſtra, &
forza
Humid’, & caldo fumo al Ciel ſi deſta
Et nella mezza region s’innalza
3330 Ristrett’in nube chiar’;
& maniſeſta
Quell’ il uapor debilement’inalza,
Che per eſſer ſottil’, è gia diſperſo
Come candida lana ſi diſcalza.
Onde s’imbianca tutto l’uniuerſo,
L’aere pregno d’ogni intorno fiocca
Le bianche falde dell’humor conſperſo
Ma con piu furia, & piu durezza tocca
Lagrandine gelat’i tetti, &
i colmi,
Et con horror, &
ſtrepito trabocca
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Onde ſi ſpezzan con le uiti gli olmi
Le biad’ à terra uanno con durezza,
Del gelido criſtal ch’à dirlo duolmi
Muor’ogni piant’ alla temperie auuezza,
El contadin di ſue ſperanze cade,
Ne piu ſe ſteſs’, ò ſua ſamiglia apprezza;
Queſto ſiran’accidente alhor accade,
Quand’ha piu forz’il Sol, però ch’ei lieua
L’humor in altre piu fredde contrade.
Che non ſon quell’, oue ſi fa la neua,
5550 La brin’, &
la rugiada forza piglia
Per queſto, &
quel contrario, che l’aggreua
Ne di ciò prender dei piu marauiglia,
Perche l’eſtate, piu che’l uerno gela,
La region’ ou’il uapor s’appiglia
Ardon gl’eſtrem’, el mezo ſi congela,
Ne potendo fuggir’ i ſuoi nemici
Riſtrett’in ſe medeſimo ſi cela.
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CAP. III. DELL’ACQVE CALDE, ET CHE FORZE HANNO DA DIVERSI ME-
TALLI D’ONDE ESCONO, ET DELLA NATVRA DI VARII FONTI, LAGHI, ET FIVMARE.
SONO alcune fonti ancora calde, dalle quali n’eſce acqua di ottimo ſapore, laquale nel bere è coſi
ſoaue, che non ſi diſidera quella delle fonti Camene, nè la ſurgente Martia.
Ma queſte da eſſa natu
ra à queſta guiſa ſi fanno.
Quando di entro la terra per lo allume, ò per lo bitume, ò ſolfo ſi accende
il fuoco mediante l’ardore, la terra, che è d’intorno à quello bianca, &
rouente diuiene, ma ſopra di
ſe alla ſuperficie della terra manda fuori il feruido uapore, &
coſi ſe alcune fonti in quei luoghi, che
ſono di ſopra, naſcono di acque dolci offeſe, &
rincontrate da quel uapore bogliono trale uene, &
in queſto modo eſcono fuori, ſenza che il loro uapore ſi guaſti.
Sono ancho di non buono ſapore, & odore alcune fonti fredde, lequali da luoghi inferiori drento la terra naſcen-
7770 do paſſano per luoghi ardenti, &
da queſti partendoſi, & tracorrendo per lungo ſpatio della terra raffreddati uengo-
no di ſopra con l’odore, ſapore, &
colore guaſto, & corrotto come ſi uede nella uia Tiburtina il fiume Albula, & nel
piano Ardeatino le fonti fredde, che ſolforate ſi chiamano dello ſteſſo odore, &
coſi ſi uede in altri luoghi ſimiglian-
ti, ma queſte tutto, che fredde ſiano pareno però bollire, percioche auuiene, che incontrandoſi di ſotto profondamẽ
tein luoghi alti offeſi dall’humore, &
dal fuoco, che tra ſe conuengono, con grande, & uehemente ſtrepito in ſe forti,
&
gagliardi ſpiriti uanno riceuendo, & coſi gonfi per la forza del uento, & sforzati bogliẽdo ſpeſſo fuori eſceno

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